Il conflitto politico fra governo ed opposizione in tema di sicurezza mi sta portando a riflettere sulla “psicologia del confine“.In questa ricerca arrivo ad un libro del 1942 e pubblicato in Italia nel 1949.
Fra le varie pagine adatte a rielaborare la questione, ne trovo una (nel capitolo “Spazio e durata vissuti: l’Io Qui-Adesso) che vi si avvicina per vie tangenziali.
E’ una pagina talmente carica di suggestione che mi devo fermare:
“Minkowski ha messo in rilievo, seguendo certi psicologi tedeschi, il contrasto fra uno spazio chiaro ed uno spazio nero nero, che interessa non più l’ampiezza, ma la materia stessa dello spazio.
Lo spazio chiaro è lo spazio della distanza.
Ci presenta gli oggetti dai contorni netti, separati da intervalli ben chiari. È come uno sfondo per le cose, meno materiali di quanto esse lo siano. Tutto vi è « chiaro, preciso, naturale, non problematico »: è lo spazio cartesiano per eccellenza. Tessendo questa tela attraverso l’universo inquietante, io esorcizzo le sue minacce: e rimetto al suo posto qualsiasi cosa che, come si dice delle persone, prendesse troppa libertà con me. Ma mettendomici dentro, io mi assimilo alle cose, tendo a diventare un oggetto fra gli altri. Nel limite in cui la società è un ordine esteriore e sistemato, lo spazio chiaro è il luogo della socializzazione, il dominio pubblico dell’esistenza.
Invece lo spazio nero è lo spazio della profondità.
Tutto vi è oscuro e misterioso, persino la luce. Esso non analizza, non separa, non è che profondità e risonanza Qualitativa in tutte le direzioni. Non è una rappresentazione le cui parti si sovrappongono, ma una sintesi d’interiorità i cui elementi penetrano gli uni negli altri come le immagini d’un sogno. Esso si presenta più pesante e materiale delle cose stesse che vi sono sospese.
« O Notte, tu sei la notte.
E tutti questi giorni non fanno mai il giorno,
non sono che giorni seminati.
Questi giorni sono dubbie luci,
e tu, notte, sei la grande mia luce scura » (Ch. Peguy)
Non si stende più davanti a me, ma mi tocca, mi avvolge, mi stringe, mi penetra, tanto che l’io si fa permeabile alle profondità dello spazio chiaro. Non mi ci situo, mi ci perdo.
È lo spazio della musica e della poesia.
Non è socializzato, è unico per ciascuno, senza essere soggettivo. La vita normale si definisce con una specie di modus vivendi fra i due spazi: e lo spazio chiaro s’incastra nello spazio scuro, governando gli atti calcolati e le utilità, mentre lo spazio oscuro si riserva l’irrazionale e le intimità dell’esistenza.
Taluni vivono solo nel primo: le anime di quegli ingegneri che aspirano ad essere anche ingegneri delle anime, quelli la cui vita non ha note come un foglio bianco, per musica, i ragionatori e i razionalisti — cugini fra loro — i calcolatori e gli spiriti positivi. Altri cercano le loro delizie e talora le loro manie nel secondo: i poeti, i mistici, i cuori semplici che sanno tacere di fronte a ciò che non capiscono.
Ma qualunque sia la realtà ultima di questi due spazi, l’equilibrio psichico chiede abitualmente che noi partecipiamo sia dell’uno che dell’altro. Se si rompe il loro legame, nascono sintomi morbosi di segno contrario.
in E. Mounier, Trattato del carattere, Edizioni Paoline, 1949, p. 275-276