Il gatto s’annoia. Non voglio dire il gatto che vive all’aperto, e ha un’esistenza movimentata e interessantissima: caccia topi e farfalle, emigra, viaggia, lotta con gli altri gatti, combatte con i cani, e conserva nel corpo tarchiato e robusto, nell’aria spavalda e determinata, qualcosa del vigore degli antichi felini. Ma il gatto domestico, l’amabile genio che protegge le nostre case, si nasconde sotto i nostri mobili e carezza le nostre mani, si annoia profondissimamente. La sua vita si è ristretta in poche stanze, dove sta confinato, come un prigioniero elegante. Mai nessuno, credo, nemmeno i grandi splenetici e romantici della letteratura, consumati dalla noia fino all’intimo dell’organismo, si è annoiato tanto. Basta guardarlo, in certi istanti in cui non si difende dietro la discrezione: quando lo sguardo è percorso da acutissimi lampi di noia – noia allo stato puro, noia attraversata da angoscia; ascoltare certi suoi miagolii, pieni di melanconia e di disperazione. Cosa pensa? Cosa sogna? Cosa desidera? Non so quanto sia lunga la sua memoria genetica. Come non immaginare che, in quegli istanti, egli sia divorato dal Rimpianto? Come Adamo, ha peccato: ha lasciato il suo Eden colorato e selvaggio; in cambio della malsicura e talvolta crudele protezione degli uomini.
Se il gatto si annoia, non si lamenta. Se leggesse, detesterebbe tutto ciò che lo spleen e l’ennui hanno ispirato ai suoi signori. Ingegnoso com’è, il gatto si è proposto di non cedere alla noia: o di trasformarla in un’arte, simile a quella di cacciare o di pescare o di tessere. Fin dai tempi più antichi ha compreso che il modo migliore per vincere la noia è quello di dormire. Guardatelo dopo il sonno. Capite subito che nel sonno egli ha attraversato campi estesissimi e compattissimi di noia: che ha vissuto, abitato, penetrato la noia; e si è lasciato penetrare da lei, come si abita l’oceano durante la circumnavigazione del mondo.
Malgrado tante scoperte della psicologia, non apprezziamo abbastanza il sonno: lo giudichiamo soltanto un’indispensabile condizione di passaggio, dalla quale risvegliarci. Non comprendiamo quei mari di freschezza: quelle discese nella vita vegetale: quella passeggiata rassicurante nell’oscuro che ci avvolge e ci protegge; né il riemergere, con gli occhi e la pelle distesi. Solo Shakespeare, Goethe, Proust e il gatto hanno capito cosa sia il sonno. Il gatto sa trarne una ricchezza di piaceri e di forze che noi ignoriamo; e raccomando agli insonni di osservarlo con attenzione.
Noi siamo abituati a dormire soltanto nel nostro letto. Lui, invece, conosce tutti i luoghi della casa, adatti a questo tempo dell’esistenza: la poltrona più comoda, dove un altro corpo ha lasciato una cuccia calorosa: il letto appena abbandonato dal dormiente e che odora ancora di sonno: il divano dell’entrata, dove qualcuno ha dimenticato un cappotto tenerissimo; e le borse, le valigie, gli armadi pieni di federe e di lenzuola. Egli conosce quali siano i gesti più propizi del sonno. Se la nostra buona educazione ci insegna a non sbadigliare, la sua buona educazione gli ha appreso che, quando arriva il sonno (non bisogna mai allontanarlo), dobbiamo accoglierlo con precisione: stringere gli occhi fino a ridurli a una fessura, sbadigliare a gola aperta, distendere le membra stanche. Quando il sonno è giunto, il corpo del gatto lo gode, istante dopo istante, nel modo più voluttuoso e profondo. Conosce cento modi per dormire: disteso sulla schiena o poggiato su un fianco, con le zampe rientrate sotto di sé, allungato sul ventre, acciambellato su sé stesso, trasformato in un morbido gomitolo di piume, quando il sonno è così intenso da trasportarlo nell’abbandonato regno dei gatti. E poi c’è il risveglio. Il gatto lo mima. Spalanca gli occhi, li richiude, e torna a spalancarli. Sbadiglia, perché l’uscita dal sonno è simile all’entrata. Si inarca. Stende le gambe una per una, le prova e le riprova, per apprendere l’elasticità accresciuta con la quale andrà incontro alla nuova giornata di luce.
Come i monaci, il gatto sa che c’è un altro rimedio contro la noia: la contemplazione. E se c’è un momento che mi affascina nella sua vita, è quando sta davanti alla finestra. Guarda nella strada. Come vorrei scorgere quello che vede! Credo che veda più in grande di noi: il bambino che esce dal portone con la cartella, il venditore di patate napoletano che ogni mattina arriva col suo carretto, le automobili che parcheggiano sulla strada, – gli sembrano probabilmente enormi apparizioni. E che strano sguardo. Da un lato, pieno di interesse. Segue il movimento di una mosca o di una farfalla o di un uomo o di una nuvola in cielo, con la passione di chi guarda con l’intera intensità dell’occhio. Dall’altro, il suo sguardo è – o sembra – vuoto: una specie di pupilla cosmica, che riflette e dissolve in sé tutto ciò che avviene nel mondo. Vorrei essere dietro quegli occhi – e guardare fino a suggere tutta la ricchezza della visione. Se gli avessimo insegnato a dipingere, il gatto dipingerebbe con la grandiosa, meticolosa minuzia di Van Eyck. Solo un gatto ha potuto comporre ilRitratto dei coniugi Arnolfini
Quali che siano i suoi rimpianti, il gatto domestico ama vivere in un mondo chiuso. Può essere più o meno grande: un appartamento, la metà di un appartamento, una terrazza, un giardino; comunque, si tratta di un luogo chiuso. A differenza dei cani, molti gatti non desiderano conoscere cosa sta oltre le mura; e talvolta, quando sono piccoli, la visione di una scala – la scala è l’abisso, la vertigine, l’ignoto – li terrorizza.Il gatto ha dunque scelto il regno degli uomini: lo considera piacevole, divertente, sopratutto degno di lui. Ma vive dentro questo regno come se fosse separato e difeso da una sottile e infrangibile parete di vetro. Non comprenderà mai i nostri dolori come li comprende un cane: il quale, dominato dal suo meraviglioso istinto mimetico, capisce cosa avviene nel nostro cuore con una simpatia che nemmeno un uomo possiede. Tutti dicono che il gatto è discreto, lontano, irraggiungibile. E uno straniero: si aggira tra noi avvolto da una atmosfera di elusione e di esclusione. Eppure qualche volta, se l’affetto o la nostalgia o il piacere lo guidano, supera la parete di vetro e dorme tra le nostre braccia come un figlio.
Vivendo con noi, accetta i nostri oggetti. Certuni lo lasciano indifferente. Non ama, per esempio, le porte. Ma, per certi altri, ha una passione travolgente. Se i mazzi di fiori freschi gli sembrano ineleganti nel loro inutile sfoggio di colori, qualsiasi vaso di fronde e di fiori secchi, così delicatamente monocromo, lo rende felice. Si avvicina, si allunga, si appoggia bene per terra, accarezza o ghermisce con la zampa i gambi, le foglie, i rami, i fiori secchi, che crepitano come una musica celestiale sotto il suo tocco sapiente. Sopratutto, adora le penne stilografiche. Quando scrivete, potete esser certi che presto balzerà sulla tavola o sul leggio e si avvicinerà a voi, affascinato dai segni che la vostra mano lascia sulla carta bianca. Allunga la zampa. Vorrebbe guidare, accompagnare o correggere la mano che scrive. Guarda la carta. Appena vi allontanate, salta sul tavolo, e fa cadere la penna a terra, la svita, la rotola sul pavimento, attende un miracolo che non avviene, e nasconde la penna sotto il tappeto o la cassapanca. Guardatelo bene, e ne capirete la ragione. Triangolare e appuntito, il gatto ha il volto e l’astuzia artigiana dello scriba egizio, che abita il Museo del Cairo e il Louvre.
La casa del gatto non è quella che voi abitate. Per ognuno di voi, è ciò che appare: uno spazio di superfici visibili. Il gatto la trasforma: la casa, per lui, è il luogo del nascosto. Non c’è nulla che egli ami tanto come ciò che sta celato, protetto, circondato, difeso. Ama il cesto della biancheria, il carretto della spesa, il frigorifero, la lavastoviglie, la vasca da bagno, il bidè, il cestello delle verdure, gli armadi, i cassetti chiusi. Quando può, vi si insinua, e ne prende possesso per dormirvi uno dei suoi sonni morbidi e senza fine. Quando si precipita così volentieri in salotto, dal quale lo cacciate senza pietà, è perché si vuole nascondere sotto i divani e le poltrone. Si cela sotto una poltrona, e poi fugge fulmineo sotto un’altra, e sotto un’altra ancora, dalla quale, invisibile, controlla ciò che accade nella stanza. Chissà da cosa nasce questo amore. E il ricordo della tana, dove tanti secoli fa abitava? O condivide il piacere del nascosto con i bambini? Oppure, animale egizio, sa che il cuore del mondo è il segreto, e tutti i luoghi che simboleggiano il segreto?
Qualche volta, ruggisce. Voi avete l’impressione che egli reciti una parte: quella del felino selvaggio, che ha scelto di non essere, o addirittura quella della tigre. Da quel momento, egli si abbandona alla più fantastica teatralità, come se la sua e vostra casa fossero una scena. Balza sulla tavola, poi sulla libreria, e poi sull’armadio: discende, corre tra i tavoli, fugge attraverso le camere, di colpo si arresta: salta su tre poltrone, si nasconde sotto un divano, cerca di arrampicarsi sulla tenda; corre più veloce, insegue sé stesso, e appare di nuovo nello studio, silenzioso e precisissimo nei movimenti. Ha dimenticato ogni noia. Non desidera dormire né contemplare dalla finestra. Per un quarto d’ora, la casa amatissima dove sta rinchiuso, la casa del cibo e del segreto, è tornata la foresta primigenia, l’intrico fantastico di tronchi e di rami e di sentieri e di biforcazioni, dove con la mente non ha mai cessato di vivere.
In Pietro Citati, L’armonia del mondo. Miti d’oggi, Superpocket Rizzoli, 1998
