Sbirciare tra i reticolati e le brecce dei muri di cinta che costeggiano spazi d’orto sottratti alla china dei monti è per me operazione quanto mai stimolante e appagante, consapevole come sono della mia ancora abbastanza acerba esperienza di orticoltore.
E così, verso fine estate, scopro che quasi tutti gli orti hanno un aspetto un po’ trasandato e di lento declino. La produzione rallenta e le foglie ingialliscono, le erbacce crescono in altezza e i confini degli appezzamenti non sono più distinguibili, dando come visione d’insieme una immagine di incolto e abbandonato.
Tra me e me gongolo e mi confermo che il duro lavoro della coperture delle prode coi teli offre ancora la sensazione della cura e di un relativo ordine. E io sono persona di moderato ordine.
Inoltre, poiché
“Si hortum in bibliotheca habes, deerit nihil”
capita anche di trovare ulteriore sprone alla mia soddisfazione nelle pagine di Ruth Ammann:
“La vita quotidiana in giardino, come ben sanno tutti coloro che devono curarne uno, non significa solo gioia, bellezza, sensualità o meditazione silenziosa, ma anche molto lavoro ripetitivo, rude, stancante e spesso anche noioso. Lo si fa proprio perché ci si prefigge di tenere in ordine il giardino e si potrebbe paragonare il perseguimento di tale obiettivo ai mille piccoli e faticosi passi che si fanno per godere soddisfatti della vista, una volta giunti sulla cima di un monte”.
Ruth Ammann, Il Giardino come spazio interiore (2006), Bollati Boringhieri – Collana Oltre i Giardini, Torino 2008, traduzione di Maria Anna Massimello, p. 130
Nelle passeggiate tardo-pomeridiane di queste giornate sempre più corte contemplo i miei lembi di terra delimitati da pietre, fiori, vasi e mi rendo conto di quanti gesti siano occorsi per arrivare a questo risultato. So per certo, inoltre, che questa è solo una tappa, perché già nella mia mente affiorano nuove prospettive di miglioramento e trasformazione.
Rallento i miei “ingordi” pensieri e mi abbandono al Carpe Diem di quanto sin qui realizzato.