Uomini di onore (edito da Piero Manni di Lecce, 2019, e vincitore del
Premio “Angeli nel cielo del Cilento”, “F.Esposito”- Ceraso, Cilento,
2009) è un’ampia e ambiziosa narrazione, un vero e proprio affresco
storico, che mette in scena fatti e personaggi dotati di un concreto spessore
storico e al tempo stesso di un’avvincente qualità romanzesca, anche se è
ben diversa dal tradizionale romanzo: diversa sia per la materia
rappresentata, sia soprattutto per la tecnica espressiva adoperata.
Prima di vedere cosa narra, è bene dire due parole su chi è Puntello. Beppe
Puntello è un attempato signore, un medico, che ha trascorso la vita,
godendosela anche (beato lui!), tra istituti di ricerca, istituti scolastici e
campi di golf, conservando un’invidiabile capacità di sorridere di sé e
degli altri, e che finalmente ha trovato l’ardire di mettere allo scoperto la
sua passione segreta per la scrittura.
Al golf-club di Montorfano, nei pressi di Como, lui è di casa, certamente,
da almeno un quarantennio; ma, ora, più che altro, lo frequenta per
intrattenersi con amici non sempre compiacenti, ai quali propina la lettura
pagine su pagine del suo interminabile libro.
A pensarci è un fatto davvero singolare che anche un altro Grande
Siciliano, il “Siciliano di ghiaccio”, come lo chiamavano per ripicca le
signore dell’epoca, ossia Giovanni Verga, abbia pensato e descritto la sua
epopea dei Vinti, I Malavoglia, lui pure qui al nord, tra il Sacro Monte di
Varese e le mondane raffinatezze di Villa d’Este. Si vede che è un destino
dei siciliani vivere al nord con mente e cuore a sud: la vita, più che viverla,
la sognano e la scrivono, evidentemente.
Ad esservi narrato, o per meglio dire rappresentato, è una storia di
famiglia, che trova il suo punto di riferimento in un luogo, il baglio, una
casa padronale di campagna, vero e proprio cuore pulsante di tutto il libro,
intorno a cui ruotano eventi e personaggi. Il tutto, sulla scena della Sicilia
occidentale, nello spazio cruciale di un quarantennio, a partire cioè dal
1860 fino al 1899.
Una storia vera, dunque, su una scena vera e con uomini veri, che viene
fatta emergere dallo scrigno della memoria attraverso le parole del
protagonista, un Innominabile, un “Uomo d’Onore”, vero e proprio “deus
ex machina” di tutta quanta la vicenda, che nel narrare la sua vita
emblematicamente riassume e condensa la parabola di una casta,
privilegiata ma non per questo non illuminata e responsabile, dotata com’è
di un innato senso della giustizia, che la sua parte l’ha recitata fin quando
non si è vista soppiantare da uomini infidi e senza scrupoli, spogliata
progressivamente delle proprie prerogative, su una scena in cui a dominare
è stata sempre più la politica e l’uso più spregiudicato del potere.
Ne viene fuori così una Sicilia (del corno più occidentale dell’Isola, il
meno esplorato e descritto dagli scrittori), niente affatto convenzionale,
con luoghi e personaggi reali e al tempo stesso coi suoi riti e i suoi schemi
mentali e sociali, oltre che con i rapporti economici e familiari calati nella
vita quotidiana (un ruolo non marginale lo gioca il sesso), drammi e trionfi
di un composito universo rusticano, di contadini, nobiltà di provincia e
“fimmini”, autentiche vestali queste ultime del tempio che è il baglio: cose
tutte che vengono rappresentate e “drammatizzate” in presa diretta, con
grande realismo, nell’incontro-scontro tra i diversi personaggi, penetrando
fin nei segreti del letto coniugale.
Il risultato è una sorta di “documento umano”, non privo anche di punte di
gustoso bozzettismo, che acquista via via un autentico valore
antropologico: il documento di un passaggio storico da una concezione del
Potere, autorevole e paternalistico, a quello, perverso, alternativo e
malavitoso, della Mafia (qui mai nominata ma aleggiante come un
fantasma), dalle ceneri cioè di una casta, o meglio di una “razza”, quale
quella degli “Uomini d’onore”, incarnazione stessa della Legge, alla
drammatica realtà dell’Arbitrio eretto a Legge, all’avvento di “Uomini
senza onore”, con una verità che non trova uguali in altre opere più o meno
recenti.
È un romanzo di “voci”, polifonico, da ascoltare più ancora che da leggere,
fatto essenzialmente di un intrecciarsi fitto e avvolgente di dialoghi tra
Protagonista e comprimari, attraverso cui si sollecitano e risvegliano
memorie e si dà corpo a vicende e personaggi, che vivono non solo del
loro specifico valore storico e referenziale, ma anche soprattutto attraverso
le prismatiche sfaccettature dei diversi punti di vista. Un dialogato che
prende il sopravvento sulle descrizioni e crea un racconto vivo e
drammatico da dare l’illusione più di un’azione teatrale che di una
narrazione.
Si tratta, certo, di una tecnica narrativa non nuova (quella dei “racconti
intorno al fuoco” dei grandi realisti dell’800, dei Russi e dei nostrani
Veristi), ma qui è di grande efficacia per il fatto che si conservano non
solo colore e la sintassi del parlato, ma anche e soprattutto le parole e il
modo quasi di gestire dei protagonisti, la “verità” insomma di un codice
espressivo, che è fatto non solo di termini dialettali (non solo del siciliano,
bensì anche del lombardo, del livornese, del modenese), ma anche di
silenzi e allusive ambiguità.
Ne deriva una rappresentazione (non uso a caso questo termine, parendo
tutto il testo una sorta di copione pronto per una rappresentazione teatrale
o cinematografica), che coinvolge molto e avvince, ancorché imponga al
lettore una continua attenzione col rischio di non riuscire a coglierne i nodi
essenziali ove si adoperi una lettura rapsodica (ma era un difetto
rimproverato anche al Verga!).
Evoco la figura del Verga solo perché qui è del mondo siciliano rusticano
che si parla, ma senza alcuna concessione al tragico o patetico che sia di
una condizione da “vinti”. Si potrebbe chiamare in causa anche meglio
Tomasi di Lampedusa, perché l’Innominabile ha molti punti di contatto
con il Principe di Salina, non perché sia modellato su quello ma perché qui
è lo stesso ambiente, le stesse grandi problematiche che si riscontrano
anche con quel grande libro, sia a livello di grande che di piccola storia, e
per giunta nello stesso lasso cronologico.
Proprio in riferimento a quest’ultima considerazione, si potrebbe
addirittura azzardare la definizione di “Gattopardo di campagna”, per
inquadrare e comprendere in qualche modo protagonista e personaggi di
questo Uomini di onore.
Questo per dire che, ancorché sembri vivere nella scia di altri libri, di
quelli Verga, di De Roberto o di Tomasi di Lampedusa (ma ancor più forse
di Cechov e Turgenev), questo libro è veramente un’altra cosa: qui c’è una
verità che in quelli, opere eminentemente letterarie!, forse non c’era,
essendo stato ripescato dal pozzo delle autentiche memorie, familiari e
sociali, senz’altro schermo se non la fierezza delle origini e la volontà di
narrare una Sicilia “vera” oltre ogni schematismo e sociologismo.