GENIUS LOCI · Venezia

Canal Grande, di Evgenij Rejn

 


Da un palazzo all’altro, dondolando sul vaporetto,
guardando la ruggine spenta di un colore bruciato,
sotto la pioggia di vetro dell’Adriatico, made in Murano,
e nella scia della tranquilla carovana
mi aprivo un varco da San Marco a Rialto
per un pertugio di legno marcio e di basalto.
E i pilastri, i balconi, i frontoni, le palafitte intagliate,
le imposte, e i gradini nell’acqua bassa, le trine,
e gli altri arabeschi di pietra s’increspavano nel canale,
e i fianchi del vaporetto respingevano i frantumi.
Nell’umido crepuscolo l’imbarcadero
s’avanzava coi lampioni colorati, e sull’orlo il tavolato
irrequieto mandava bagliori di perla,
la città s’offuscava e lampeggiava, nell’aere torbido
della sera, d’increspatura veneziana,
e gravava con una ciocca tinta scompigliata;
come scostando dalla fronte un capello spezzato,
Venezia diceva, modulando la voce:
“Lasciatevi guardare, voi che accanto mi passate,
di faccia e di profilo, e di tutto il visibile,
nella luce che si spegne prima della vera notte,
lasciatevi guardare da vicino, coi miei occhi.
Voi girate con la giostra del Tempo,
dall’ombra uscite nella festa del mattino,
avanzando assieme all’acqua del canale
verso la barriera con cui m’incorniciò
la storia, moltiplicata per la pietra.
Punto e basta. E dico: Amen!
Voglio dire nella lingua del clamore
dalle feritoie del vecchio bastione,
dalle piazze, dai mercati, dalle torri campanarie,
che la legge veramente sta alla vostra volontà.
Io rimango. Voi passate. Così dev’essere,
non sono ancora un colonnato in rovina,
sono tutta intera e giungerò in capo al mondo,
come un mortaio che spara nell’eternità.
Passerete, ma San Marco resterà,
una barca deserta se ne andrà per il canale,
nessuno sui ponti, sul litorale,
e allora leverò lo sguardo al cielo e – O Dio! –
lassù, nella confusa lontananza, dove sfreccia un asteroide,
il mio ultimo spettatore socchiuderà gli occhi”.

Evgenij Rejn

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