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ANTONIO SPALLINO (1925 – 2017), il sindaco e cittadino di Como che ha lasciato traccia

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ADDII. ANTONIO SPALLINO POLITICO DI “PUNTA”

 ANTONIO SPALLINO: AVVOCATO, POLITICO, SINDACO. SPORTIVO E UOMO DI CULTURA È MORTO A 92 ANNI

Un mito. Una di quelle persone che ancora in vita sanno fissarsi in uno spazio e in una posizione riconosciuta da tutti: amici e nemici. Antonio SpallinoNino per gli amici, è campione olimpico agli inizi degli anni Cinquanta, ma la notorietà gli arriva una decina d’anni dopo. Prima è assessore all’Urbanistica (con sindaco Lino Gelpi) poi è sindaco dal 1970 al 1985. Dopo Spallino ve ne sono una mezza dozzina, ma il “sindaco” rimane lui: a dispetto della sua riservatezza, del fastidio – non nascosto – che prova quando lo si vorrebbe coinvolgere, dell’ironia con la quale commenta scelte amministrative lontane anni luce dalle sue idee.

È dunque a capo dell’amministrazione comunale comasca negli anni che separano la “politica” delle persone (il fare, l’inventare, il discutere, il rischiare, lo sbagliare…) da quella delle regole che la burocrazia impone e che – magari – “genera mediocri” (parole Sue).

Preciso fino all’esasperazione (dei compagni di squadra e dei collaboratori), raffinato nei modi (tira di scherma, con armi “leggere” benché “letali” e vince!), elegante nel portamento, nel vestire, nel porsi all’interlocutore Antonio Spallino ha una fissazione: la cultura.

In Comune, a Como, ne tiene l’assessorato (1965-1970) quando i modelli (e i riferimenti) sono ancora indefiniti, ma imponendosi (e richiedendo) una preparazione che non può prescindere dalla ricerca, dal controllo, dall’esperienza insomma dalla cultura in generale.

Ama i libri ed è bibliofilo curioso e bibliomane esperto. Ne possiede di antichi e moderni e li conserva, li cura. È una passione che lo porta a sostenere con passione lo sviluppo della nuova Biblioteca comunale (diretta dall’amico Sandro Bortone) aperta – anzi: più aperta – alle giovani generazioni.

È capace di sognare, forse troppo, e immagina una città perfetta, pulita e regolare, sgombra dalle auto (già invadenti) e perciò dispone la chiusura (di una parte) del Centro storico alle auto anche opponendosi all’opinione fortemente negativa dei commercianti.

È un democristiano (come il padre Lorenzo, deputato e ministro), ma resta sempre anomalo, un po’ lontano, spesso distaccato da quella caratteristica bigotta, servile, approfittatrice che si cela dietro molte buone maniere di alcuni democristiani del tempo.

La città ideale che sogna e che tenta di realizzare comprende diverse acquisizioni edilizie e numerosi (e costosi) restauri: non tutto e tutti portati a buon fine, ma il tempo è tiranno e il denaro mai sufficiente. Delle strutture strappate al degrado, alla rovina e al disastro restano comunque esempi importanti: Santa Chiara, San Francesco, San Pietro in Atrio, i Musei civici, la Pinacoteca e soprattutto Palazzo Natta

Discussa, discutibile e ancora di valutazione incerta l’operazione Ticosa acquistata (1982) dal Comune anche per sostenere il buon esito dei licenziamenti (di maestranze ormai esasperate dal tracollo economico dell’azienda). Sono decisioni e investimenti che hanno lasciato un’eredità culturale e allo stesso tempo morale: che cosa si pensa e cosa si fa in una città.

Certo, in quasi venti anni di responsabilità, Antonio Spallino ha preso anche decisioni politicamente e urbanisticamente criticate che hanno prodotto un’espansione edilizia non sempre sotto controllo; esperienze sofferte e cariche di tensione come i tre anni di responsabilità quale Commissario speciale a Seveso, dopo il disastro ICMESA.

Nella sua lunga vita, Spallino, sportivo, avvocato e politico, non è mai stato un “uomo per tutte le stagioni” bensì un “uomo che ha creato una irripetibile stagione” per la città che ha prediletto e per le persone che lo hanno molto amato.

Profilo [da www.studiospallino.it ]

Avvocato civilista e amministrativista (specializzato in diritto urbanistico), cassazionista, iscritto nell’Albo degli Esperti per la Pianificazione Urbanistica.
Autore di: Lineamenti del territorio (Como, 1968); Ragioni e obiettivi dello studio sulla Città Murata di Como (in “La Città Murata di Como”, Como, 1970); Città antiche e programmazione (Milano, 1976); Beni culturali ecclesiali a Como (in Archivio Storico Diocesi Comense, 1987); Una frase d’armi (Milano, 1997).

Amministratore pubblico: Assessore all’Urbanistica del Comune di Como (1965/1970); Sindaco del Comune di Como (1970/1985); Commissario Speciale della Regione Lombardia per l’incidente di Seveso – ICMESA (1977/1979); Presidente del Centro di Cultura Scientifica “A. Volta” dalla fondazione (1981); Membro Consiglio Direttivo I.A.S.L. (Associazione Internazionale di Diritto Sportivo); già Presidente Centro Studi di Diritto Penale Europeo.


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Nei giorni scorsi se n’è andato Antonio Spallino, già rimpianto sindaco di Como e valoroso atleta comasco.
In consiglio comunale il capogruppo di Svolta Civica, Vittorio Nessi, ha voluto dipingerne un ricordo e l’ha fatto con le parole che riportiamo qua sotto:

Nei primi anni Settanta entrai nello studio legale Spallino – Fagetti per svolgere la pratica di procuratore legale.
A quei tempi Antonio Spallino era sindaco di Como, era considerato uno dei migliori avvocati della città e, soprattutto per me che da giovane subivo il fascino delle grandi imprese sportive, godeva della fama di essere stato un campione di scherma.
Col tempo avrei scoperto direttamente le sue grandi qualità: il rigore scientifico nella professione, la cultura profonda ed elegante, la passione per i libri e la poesia, il fascino personale, l’eloquenza sobria e raffinata, la straordinaria intelligenza. Doni, questi, che la natura gli aveva elargito a piene mani e che Antonio Spallino ha onorato arricchendoli e mettendoli a disposizione di tutti coloro che ne volevano fruire. Ma io ero interessato a conoscere l’uomo che a Melbourne 1956 aveva messo a segno l’ultima stoccata, quella che avrebbe assegnato all’Italia la medaglia olimpica del fioretto a squadre.
Ricordavo di avere letto in un libro la cronaca sportiva di quell’evento scritta da Gianni Brera, epico cantore delle imprese sportive degli italiani. Scrisse Brera, raccontando lo storico episodio: “Spallino è di nervi delicatissimi: hai l’impressione che gli debbano ardere e consumare gli occhi come stoppini di candela … Fu un momento terribile e io tenevo la mano sul cuore che perdeva colpi”.
L’Italia era in vantaggio 8 a 7 sui Francesi, tradizionali e fieri avversari degli azzurri. Per l’ultimo assalto salirono in pedana Antonio Spallino ed il coriaceo transalpino Netter. Spallino mise a segno quattro botte stupende e l’avversario parve spacciato. Ne piazzò una quinta, la decisiva, ma il presidente di giuria, il magiaro Tilly, non la ritenne valida. Il colpo era semplice: dopo aver battuto il ferro avversario in posizione di “terza” Spallino lo aveva aggirato toccando di “cavazione” in allungo. Il giudizio del giudice lo offese grandemente perché ritenuto ingiusto e, a quel punto, per lui l’obiettivo non fu più la medaglia: era stata tale la sensazione di avere subito un’ingiustizia che Spallino iniziò a replicare l’attacco per dimostrare al giudice di avere sbagliato. Sempre la stessa azione, contro ogni logica e buon senso; nella sua mente “la pedana si era trasformata in una sorta di bilancia della giustizia”. Inutilmente i compagni si sbracciavano dalla pedana perché lui cambiasse l’azione. “La riparazione dell’errore non sopportava indugio” – scrisse Brera.
Netter si portò così sul 4 a 4.
Infine, la quinta botta, la decisiva. “Il filo d’acciaio cercò l’attrito del filo opposto parando di terza e toccando di cavazione in allungo. Ancora la stessa mossa. Fatto.”
E fu medaglia d’oro.
Vidi in quell’episodio l’essenza dell’uomo, la sublime follia di rischiare l’impresa memorabile per riaffermare il rigore morale, il senso dell’etica e l’idea di stringere quella mano mi affascinava grandemente.
Ma, “la sfida più bella è quella che non vinsi”, come dice il poeta.
Nel 1960 Spallino era ancora una delle lame più brillanti d’Italia e le Olimpiadi di Roma erano in via di preparazione. Una congiura di Palazzo esautorò i commissari tecnici che furono sostituiti da commissari straordinari del Coni. La reazione degli atleti fu immediata: diciannove olimpionici, fiorettisti e fiorettiste dichiararono la loro fedeltà al presidente della Federazione, pena la rinuncia alla partecipazione ai Giochi. Nell’agosto 1960 solo Spallino e Bergamini rimasero fedeli ai loro principi e rinunciarono alle gare. Da allora Antonio Spallino non calcò più la pedana e lasciò le competizioni.
Si può comprendere quindi la mia trepidazione, quel giorno in cui mi presentai nel suo studio per iniziare la pratica legale. Davanti a me stava un uomo affascinante, dalla voce vibrante, lievemente distaccato ma attento alla sensibilità del suo interlocutore. Col tempo divenne affettuoso indirizzandomi parole gentili nella dedica al libro da lui scritto, “Una frase d’armi”.
Capii negli anni successivi il significato di quella prima stretta di mano. La spada, dice Spallino nel suo libro, “è come la rondine. La stringi troppo? La soffochi. Troppo poco? Ti vola via”. Parlava della spada ma, per me, intendeva la vita.
Antonio Spallino è stato anche un eccellente uomo politico e un grande sindaco di Como.
Parlerò di soli due episodi.
Negli anni Sessanta si andava affermando la visione della nuova città. Nella sua qualità di assessore all’Urbanistica della giunta Gelpi egli aveva radunato attorno a sé i più sensibili studiosi di urbanistica e portò a maturazione il recupero del centro storico. La partita politica si svolgeva sul terreno della pedonalizzazione della città murata.
In quei tempi frequentavo con curiosità i lavori del consiglio comunale.
Ricordo un’assemblea alla Camera di Commercio dove Spallino si trovò a fronteggiare una folla di negozianti in subbuglio, preoccupati che dalla chiusura al traffico delle vie derivasse un pregiudizio ai loro affari. Mentre stava illustrando con estrema eleganza intellettuale i problemi e le soluzioni drastiche che l’amministrazione andava proponendo, la titolare di un negozio del centro lo interruppe dicendo ad alta voce che anche la moglie dell’assessore usava recarsi in piazza san Fedele in automobile a fare le compere. Le parole furono seguite da una fragorosa risata dell’intera sala.
Chiunque sarebbe stato sopraffatto, ma non Antonio Spallino che, riprendendo il filo del discorso, insegnò all’intera città come l’azione politica debba essere attenta alla soluzione dei problemi senza farsi condizionare da bassi calcoli elettorali.
Un giorno, parlando, mi disse qualcosa del genere: “Se avrai l’occasione, governa come se tu volessi perdere le elezioni. Il tempo è galantuomo e sa riconoscere le visioni di chi guarda alle generazioni future. Se no, non non ne vale la pena”.
Il sindaco.
Antonio Spallino fu eletto sindaco di Como dal 1970 al 1985 nelle file della Democrazia Cristiana.
Erano quelli i tempi in cui i fascisti erano veramente fascisti; i comunisti, comunisti e i liberali, liberali. In molti ricorderanno la forte contrapposizione in consiglio comunale e gli eletti combattevano un’aspra battaglia politica che spesso era anche ideologica. Io appartenevo alla schiera di coloro che non volevano morire democristiani.
Venne la strage di Natale. Il 23 dicembre 1984 un ordigno esplosivo fece deragliare il rapido Roma – Milano n. 904 in località San Benedetto Val di Sambro. Il triste bilancio fu di 16 morti e 267 feriti.
L’angoscia scese sull’intero Paese. Era come se un mantello nero fosse calato sulla nostra città e i giorni del solstizio d’inverno acuivano la forte sensazione di paura e di morte come se al buio delle ore si aggiungesse l’oscurità del male.
Fu convocato a sera un consiglio comunale straordinario. L’intera cittadinanza si ritrovò in Municipio affollando l’aula di Palazzo Cernezzi, lo scalone e perfino il cortile antico. Era come se un gregge disperso si fosse riunito per cercare sicurezza e protezione, calore e speranza. E Antonio Spallino parlò assumendo la posizione delle braccia che gli era congeniale – il gesto di colui che ha appena deposto la spada ed è pronto ad impugnarla – con la voce rassicurante e sicura, con la forza che taluni tengono nascosta non si sa dove e che riemerge nei momenti decisivi della vita. Spallino parlava e ciascuno iniziò a sentire il calore della persona che gli stava accanto; scendeva la notte sulla città e le tenebre si allontanavano dal cuore. Furono parole di lutto e di riscossa, di pietà e di passione. Capimmo che avevamo il dovere del coraggio.
Di quei momenti ricordo la straordinaria sensazione del sangue che tornava a scorrere nelle vene, ricordo il calore dei corpi di chi mi stava accanto, ricordo di essermi sentito parte pulsante di una città, la mia città.
E furono in molti che, tornando nelle loro case, sentirono riaffiorare sulle loro labbra le parole immortali di Walt Whitmann: “Capitano, mio capitano…”.
VITTORIO NESSI

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