
«…brillavan le foglie rosseggianti a varie tinte», Alessandro Manzoni

Al di là del parco, al di sopra dei campi fumiganti, scivolò dentro il paesaggio un arcobaleno; i campi finivano sul limitare oscuro e dentellato di un lontano bosco di abeti dove si inarcava una parte dell’arcobaleno, e in quel tratto il bordo della foresta scintillava magicamente attraverso il velo iridescente verde pallido e rosa che lo schermava: una dolcezza e uno splendore tali da ridurre al rango di parenti poveri i colorati riflessi romboidali che il ritorno del sole aveva proiettato sul pavimento del padiglione.
Un attimo dopo cominciava la mia prima poesia. Che cosa la scatenò? Credo di saperlo. In assenza di vento, il semplice peso di una goccia di pioggia che brillava, godendosi il suo parassitico lusso, su una foglia cordata, ne aveva inclinata la punta, e quello che pareva un globulo di mercurio aveva eseguito un improvviso glissando lungo la nervatura centrale, quindi, ormai spoglia del suo lucente fardello, la foglia, sollevata, si era di nuovo distesa. Foglia, inclinata, spoglia, sollevata – l’istante che ci volle perché questo accadesse non mi parve tanto una frazione di tempo quanto una fessura nel medesimo, una pulsazione omessa, subito compensata da un picchiettio di rime: dico volutamente «picchiettio» perché, quando arrivò una raffica di vento, gli alberi si diedero allegramente a gocciolare tutti insieme, in un’imitazione del recente rovescio di pioggia, rozza quanto lo era la strofa che già mormoravo se paragonata al mio brivido di meraviglia nell’istante in cui cuore e foglia erano stati una cosa sola.
da Vladimir Nabokov, Parla, Ricordo. Adelphi