Occorrono cinquecento passi per abbandonare la civiltà e l’asfalto della strada e addentrarsi nella selvatichezza boschiva. Questo cammino sul sentiero prepara una mutazione psicologica: so già quello che accadrà eppure ogni volta provo meraviglia e stupore. Sulla destra si vedono scorci grigi ed azzurri incastrati nei profili dei monti, tronchi di cedri e prati strappati alla parete scoscesa; sulla sinistra muri di pietra e rocce lasciate lì dai ghiacciai e sedimenti terrosi che permettono la sopravvivenza a felci e piante del sottobosco.
Ogni passo è un atto di coscienza. Il rumore diventa suono. Le polveri sanno di selvatico, l’acciottolato ricorda il durissimo lavoro degli antenati, aiutati da asini buoni e mansueti. C’è poi il punto in cui i gradini cominciano a discendere: occorre sedare un poco l’ansia di arrivare, occorre prudenza e consapevolezza. Fra poco, pochi passi ancora, ci sarà un cancello, e oltre – lì sotto – le acque del lago.
Ogni volta che dischiudo il cancello che accede direttamente al giardino, ho la piena consapevolezza di entrare in un microcosmo dove lo spazio fuori di me e quello interiore si stringono in un consolatorio abbraccio.
Come se, in quel luogo, si attivasse una sorta di delimitazione (e dunque elaborazione) delle mie emozioni incontrollate, talvolta labirintiche, altre struggenti o drammatiche, che affollano la mia vita interiore e che subito si placano nel dolce verde tranquillo, il colore più rassicurante offerto dalla natura.
Nelle diverse sfumature del verde – pino, menta, giada, smeraldo, cedro, grigioverde, salvia, marcio, oliva, erba, muschio . cangianti al mutare delle stagioni, riscopro la corrispondenza tra il mio esistere e il ciclo universale della vita dove inseminazione, nascita, sviluppo, maturazione, avvizzimento, caduta, altro non sono che le espressioni delle mie personali fasi del vivere.
Eccomi qui, viandante dell’esistenza a contatto con la natura, luogo straniante lungo il quale il toccare, vedere, odorare, ascoltare si rinnova ad ogni mio passo vagabondo.
Mettere in relazione il proprio sé con il mondo esterno è come un “fare anima” sia pur con il gesto semplice dello “stare” in un posto, alla ricerca lieve, curiosa ed interessata di quel qualcosa di difficilmente afferrabile (se non vi si presta amorosa attenzione) che va a costituire il nucleo essenziale di un luogo. Lo si cattura con una intuizione o con una percezione sintetica.
Come da mia indole classificatoria, non rinuncio a contare i gradini, quasi a correggere la mia impazienza e ad educarmi a una contemplazione attiva di ciò che è accaduto nei giorni di assenza e di quali sorprese, belle o brutte che siano, io possa trovare.
Ad ogni balza di quel terreno scosceso corrisponde un certo numero di gradini da scendere o salire, destinati a sottrarre dalla forte pendenza dei monti terrazzamenti da adibire a coltivazioni. Si chiamano affacci, lunghe e strette balconate vegetali dove il cammino diventa pratica filosofica.
Frutto di una progettazione umana volta ad addomesticare una natura di per sé indomita e selvaggia, oggi ognuna di quelle terrazze compresa fra ripide ma brevi scalinate, ha trovato una sua specifica caratterizzazione, assecondando il mio gusto individuale, spero in modo controllato e sensibile, Nella stagione della rinascita, varcato il cancello mi accoglie il cupolone delle viti, instancabili promesse di verdi e pesanti grappoli di acini dal colore che muta al progressivo accorciarsi delle giornate.
Con soste meditabonde mi soffermo nei pressi di cespugli ormai disadorni del loro carico di azalee, di peonie spetalate, dell’azzurro estinto del glicine e pondero sulla fugacità del trapassato rigoglio di fiori, ora sostituito del niveo candore profumato del gelsomino e delle zagare.
So già che fra non molto l’infaticabile ronzio delle api turbinerà su un vermiglio, un porpora, uno scarlatto dei rosai ad alberello e non mi preoccupa l’erba che cresce rigogliosa fra robusti cespugli di ortiche: queste ultime diventeranno prezioso fertilizzante naturale per il mio orto in vaso, mentre il verde disordinato racchiude come gioielli e colori infiniti i teneri fiori di campo. La brunetta assieme a campanula. bugula, acetosa, ginestrina e altre a me ignote, cullate da trifogli, pratoline tarassaco e malve, sedurranno con il loro dolce nettare farfalle, bombi e calabroni solitari.
Decisamente non sopporto i giardini ossessionati dal taglio del prato, continuamente concimati e sarchiati per dare sempre il massimo di un’artificiale e anonima versione “all’inglese”.
No, non è quello il mio giardino i cui unici effetti speciali già appaiono sul finire dell’inverno, quando il calicanto è il primo a fiorire e al suo spegnersi, già premono le centinaia di bulbi dei giaggioli e il giallo dei sottili fiori dell’amamelide.
Non sboccia tutto insieme, lungo i corridoi. In quello più lungo (altri nove gradini) si danno il turno i pruni, i susini, il ciliegio, nel suo bianco spumoso, e infine i meli: ad ognuno il suo momento di gloria.
Salendo altri nove gradini mi dà il benvenuto la minuscola coreografia che ricorda il caldo del Sud, tra mandarini, limoni, arance, vasi di agavi e una palma che è cresciuta in concomitanza al mio arrivo. Tra i compositi verdi e le fragranze titillano le narici basilico e timo, dragoncello e maggiorana, menta, rosmarino, alloro e limoncina in disordinati grovigli o scompigliati arbusti.
Naturalmente non tutto è arcadia.
La nuova stagione è appena iniziata e già si vedono le prime foglie cadute, getti e polloni recisi, piante soffocate, ma non nella noncuranza: tutto viene accuratamente sorvegliato, nulla è sprecato. Non passerà molto che dal seccume e dalla morte, con un autoerotismo sfrenato, nasceranno nuovi getti e polloni, e ciò che è marcito e si è disfatto riprenderà vita in forme nuove, belle e colorate.
Mi sovvengono le parole del filosofo poeta Giacomo Leopardi che nel suo Zibaldone appuntava:
“Voi non potete volgere lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento … Quell’albero è infestato da un formicaio, … quello è offeso nel tronco … Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco … In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso, là un zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via”.
La natura non ci dà la soluzione al mistero della vita, ma ci avvicina alla sua comprensione.
Il giardiniere-filosofo sa che la sua opera è effimera perché la natura è indomabile e la tavolozza dei colori è destinata a sbiadire per cedere il posto ad altre variati e altre gradazioni nello scorrere dei mesi. Ma di questo non si dispera perché curando la terra, impara che non esiste momento in cui in giardino non si intessano esuberanza e caducità, così come per la propria vita non si susseguano anticipi di malattia, le sperate guarigioni, le ricadute e infine la morte.
Sono le vicende dell’umana sorte legate al mistero, all’insondabile, all’ineffabile che, nella loro presunta individualità, si dispiegano ad accogliere l’universale e l’eterno.
Forse, nell’illusoria speranza di paragonare il lavoro fisico a quello psichico, ogni volta che mi accingo a potare rami secchi o rastrellare foglie cadute provo l’inattesa soddisfazione di riuscire a sgombrare l’anima da vecchi e inutili pensieri.
Perché, passo dopo passo, imparo che fare il bene del giardino è soprattutto fare del bene a sé stessi.
Il continuo divenire della natura trova il suo apice nella coltivazione dell’orto in vasi dove, ancora, l’impegno del corpo soppianta i pensieri: via dalla casa, dai giornali, dal telefono, dalle incombenze del quotidiano. Al loro posto gli universali gesti della cura : seminare, diradare, trapiantare, rincalzare, sostenere, bagnare, concimare, cimare, raccogliere. Pure in questo caso, nessuna indulgenza agreste: curare un giardino è fatica dura, sudore che si mescola alla polvere, calli sulle mani, ferite, risultati spesso disattesi.
Nonostante ciò, contemplazione e meditazione sul trascorrere del tempo dettato dal ciclo della vita e della morte diventano nell’orto in miniatura elementi di serenità e pacificazione sostitutivi di stress e ansia, ricordandomi, inoltre, che esistono variabili indipendenti dal controllo umano.
Vento, siccità, grandine possono invalidare ogni sforzo elargito, ma prendersi cura della terra non dà necessariamente diritto al risultato. Un ulteriore modo per ricordarmi che non sempre le aspettative corrispondono ai nostri desideri: devo accettare quello sfuggente certo che d’imponderabile destinato a distruggere i diletti cultivar o a salvarli, malgrado me.
Placata la foga del raccolto orticolo di fine estate, quando l’esuberanza e la passionalità del rosso-oro dell’incombente autunno lentamente perdono intensità per abbandonarsi alla tonalità più morbida e rassicurante del colore marrone, si fa più intensa l’introspezione regressiva.
Forse perché la terra nuda è di questa tinta, quella stessa terra che elargisce e raccoglie, dispensatrice di vita e depositaria di ciò che vita non è più. Il marrone aranciato tinge anche gli ultimi frutti della stagione, ma so che sono gli ultimi scorci di ciò che resta prima del riposo invernale.
Il congedo finale, quando anche le tartarughe avranno scelto la loro tana per inabissarsi, sarà ostentato dall’allegro addobbo del caco, con i suoi frutti arancioni penzolanti dai rami nudi e spettrali, dolce polpa per i pettirossi che non temono il gelo della giornate più brevi.
Nella tiepida malinconia, è l’affaccio dell’ultimo piano che appaga l’anima.
Da lassù, nel silenzio rotto dai rintocchi di campane, ragli d’asino e motoseghe in azione per la legna del camino, lo sguardo si perde verso l’occidente, innescando una reverie ad occhi aperti che, con variabili geometrie, oltre il faro di San Maurizio, permette a paesaggi lontani di visitarmi. Nella quiete silenziosa il ricordo vede inanellarsi immagini degli altrove Milano, Venezia, Trento, Trieste, luoghi di un passato frammisto ai binari dei treni e alle aule di studenti vicini al titolo più ambito.
Ma, ancor più mozzafiato, ecco disegnarsi, come naturale anfiteatro, l’acqua di lago, specchio dell’anima, liquida materia “conclusa” dall’abbraccio dei monti.
Sembra ferma. Ed invece correnti sotterranee la fanno turbinare. Lo sciabordio sulla rive è continuo e mi ricorda che l’immobilità è anche movimento e che occorre guardare sotto le apparenze. E poi che se queste baie sono così belle, così cariche di fascino allora vuol dire che l’evoluzione geologica questo voleva e voleva anche che ne fossimo testimoni. So di essere preso dal “sentimento di lago”, di origine dichiaratamente romantica: ma non temo scivolamenti regressivi, perché essere romantici dentro è una virtù da che voglio preservare.
E così tra questa immensità s’annega il pensier mio e il naufragar m’è dolce in questo lago.