Memorie – Cristina Fontana racconta nel suo nuovo libro le vicende della prostituzione sul Lario
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Dai lupanari dell’antica città romana alle escort digitali che adescano clienti su Internet. È la realtà, sfaccettata, del mestiere più antico del mondo, la prostituzione, così come veniva e viene praticata a Como, ossia la Como a luci rosse.
Così la definisce fin dal titolo un’informata indagine storica di Cristina Fontana, collaboratrice del “Corriere di Como” e già autrice di vari volumi dedicati a storie e memorie locali. L’argomento prostituzione non è solo pruriginoso, come vorrebbe suggerire l’immagine erotica sulla copertina del volume. È soprattutto arduo: occorre raccontare in poche pagine (ma neanche pochissime, sono oltre 240) infinite storie di “vita”, tra case di tolleranza, marciapiedi e altre situazioni equivoche, mantenendo la giusta distanza dell’atteggiamento storico senza dimenticare che si sta cercando di circoscrivere una piaga sociale, per quanto atavica. Raccontata da figure mitiche come – degne di una poesia del Porta – la “Giovannina”, la “Marzellina”, la “Luigia”, la “Gigogin” e la “Gorlin”, di esile statura, che batteva in via Italia Libera. Ma è un rosario di «commercio libidinoso» – come lo definisce un documento dell’Archivio di Stato di Como – fatto soprattutto di solitudine, dolore, miseria, malattia, a volte anche morte. Mai fatto di quell’aura romantica di cui certo maschilismo ha ammantato il fenomeno, con la retorica nostalgia per l’epoca in cui “quelle signore” erano regolamentate in lager di Stato, e sopporta omertosamente quelle di oggi per le strade, esposte al libero arbitrio della malavita e dei suoi vari clan.
Qualcosa dei vecchi bordelli della Como novecentesca si respira nel romanzo di Piero Chiara Il pretore di Cuvio, da cui si vuole trarre un film per il centenario dello scrittore luinese nel 2013. È la storia appunto di un pretore, Augusto Vanghetta, ossessionato dal sesso. Tanto da essere «sempre indaffarato a visitar femmine», e questo nonostante l’aspetto tutt’altro che invitante. «Alto poco più di un metro e mezzo, curvo e quasi gobbo, già grasso e occhialuto a vent’anni, e simile a un coleottero o a uno scarabeo stercorario per la sua tendenza a cacciarsi nel sudicio», annota la penna di Chiara. Intrisa di veleno ma al tempo stesso di pietà per le sorti degli umani che si immergono nel brago della solitudine e dell’egoismo quel tanto che basta da aver bisogno di pagare per ottenere un po’ di compagnia. Augusto riesce ad avere comunque successo costante presso vari generi di donna, dalla perpetua alla nobile. Ma riceverà uno smacco dalla consorte, cornificata per anni. L’apprendistato erotico di Vanghetta avviene appunto nei lupanari della “sconcia suburra” della Cortesella, il quartiere di Como rivoluzionato dal “piccone risanatore” del fascismo negli anni Trenta. Certo, i primi passi nella professione forense li compie tra Cantù ed Erba. Ma in città, nei postriboli della malfamata zona attorno al Duomo – il romanzo è ambientato negli anni Trenta, nei primi anni del fascismo – Vanghetta (nomen omen?) viene iniziato ai piaceri dell’eros a pagamento: si reca di buon mattino nelle “case”, grazie a speciali “pass” per accedere alle grazie delle ospiti prima dell’ora di apertura ufficiale.
Ma dalle fantasie letterarie, sfogliando il libro di Cristina Fontana, pubblicato da Sampietro di Menaggio, siamo richiamati con prepotenza all’esattezza della cornice storica, scandita pagina per pagina da documenti d’archivio di varia fonte.
Il marciapiede si batteva metaforicamente parlando già sotto i romani. Scopriamo che, all’epoca dei due Plinii, Como aveva un suo edificio per il meretricio pubblico: era tra via Benzi e viale Varese.
E qui emerge subito il ritratto di un “tipo” sociale ben definito. Scrive Fontana: «Le meretrici erano costrette a indossare una tunica corta, simile alla tonaca degli uomini, perché si distinguessero dalle donne oneste, ma col tempo le leggi sul loro abbigliamento divennero meno rigide, al punto che esse furono tra le donne più eleganti e appariscenti, grazie anche alle cure che dedicavano al corpo».
Passiamo al Medioevo, in cui dilaga la corruzione e in cui i bagni pubblici – in città erano nei pressi dell’attuale basilica di San Fedele – diventano sempre più un centro di prostituzione. A tal punto, chiosa l’autrice, che «le autorità cittadine, al fine di impedire ogni attività sessuale illecita, si battono per la separazione dei sessi e per la periodica ispezione degli stabilimenti. Ma, nonostante questi tentativi, la prostituzione continua a dilagare al punto che la parola “bagno” diventa sinonimo di “bordello”».
Passiamo al ’400 e alla creazione dei veri e propri postriboli di cui il volume fornisce una sintetica mappa sulla base dei dati storici sin qui raccolti. Como decide di costruire il primo lupanare civico nel 1465, dove “calmierare” la presenza di prostitute fino ad allora libere di esercitare la professione in casa o nei luoghi pubblici sollevando scandalo (meretrix erratica), ricorrendo anche a stratagemmi come travestimenti da uomo per adescare i potenziali clienti. Il postribolo “fisso” segnò così la nascita della prostituzione legalizzata e regolarmente tassata. La struttura sorse nei pressi della chiesa di San Provino, in uno stabile della nobile famiglia cittadina dei Rusconi: «Aveva un buon numero di camere – annota Cristina Fontana – altri locali adatti all’uso richiesto e si estendeva fino alle mura, permettendo così di entrarvi con minore vergogna».
Segno distintivo delle meretrici dell’epoca era il mantelletto di fustagno, che doveva essere indossato per legge ed era probabilmente ispirato a quello delle “colleghe” milanesi. Nemmeno la chiesa era esente dal problema: il curato di Musso, a fine ’500, teneva in casa «oltre la massara» anche «done al suo servitio, maridate e non, giovane, il che rende scandolo a molte persone», come si legge negli Atti della visita pastorale del vescovo Feliciano Ninguarda alle pievi comasche del 1591. A Como nacque in seguito l’esigenza di istituire una struttura atta alla redenzione delle giovani e meno giovani “traviate” sulla strada del meretricio. Fu il “Luogo Pio del Soccorso” fondato «a beneficio di quelle povere figlie che stanno in pericolo di perdere la pudicità», dal gesuita Paolo Sfrondati. Più tardi, nel “Reclusorio del gambero” di via Natta, attestato dal 1819, vennero curate le prostitute infette dalla «nefanda professione”
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Il Giorno - 3 giorni faLa traccia della visita è stata offerta dalle pagine del bel libro di Cristina Fontana, Como a luci rosse, che partendo dai Romani ricostruisce …Como percorso di ” Como a luci rosse ” ovvero i luoghi dov’erano i postriboli (Foto by © Carlo Pozzoni – Como)
COMO Comaschi sempre più interessati alla storia della città, in particolare quando si va alla scoperta della “Como a luci rosse”. Ieri, all’appuntamento organizzato dall’associazione Guide erano presenti più di 50 persone.
In compagnia del cicerone Cristina Fontana hanno fatto tappa nelle principali zone “hard” del centro cittadino, quelle cioè interessate dal fenomeno del meretricio, dove erano ubicate le case di piacere. Ossia: il vicolo Duomo, l’edificio a fianco della Torre Pantera e via Volpi famosa per “Il Dollaro” la casa di tolleranza chiusa nel 1958 per effetto della legge MerlinElena D’Ambrosio
Fra le novità presenti quest’anno alla Fiera del Libro da poco conclusa, figurava il libro di Cristina Fontana, “Como a luci rosse”, una vera e propria ricerca storica che affronta per la prima volta il tema della prostituzione nella nostra città partendo dall’epoca romana ed estendendo l’indagine, basata sulle carte d’archivio, fino ad oggi.
Raiuno sta proponendo in questi giorni, vai a http://www.laprovinciadicomo.it/stories/Cultura%20e%20Spettacoli/707406/